Arnon Grunberg
Giudizio universale,
2006-01-01
2006-01-01, Giudizio universale

Storia di una circoncisione


Remo Bassetti

Una delle principale ragioni per le quali nel mondo (in Italia poi!) non si legge è che tutti sono impegnati a scrivere. Pochi in realtà riescono davvero a pubblicare. Però qualcuno alza da solo la media e vive una molteplice esistenza editoriale. Le vette le raggiunse Pessoa che creò diversi eteronimi, li sguinzagliò per libri e riviste, li portò persino a dialogare e polemizzare tra loro. L’olandese Arnon Grunberg, in questa categoria, ha compiuto un piccolo capolavoro: ha vinto un premio letterario, e qualche anno dopo ha partecipato di nuovo con un nome inesistente, Marek vand er Jagt, vincendo un’altra volta. Questo tanto per capire il personaggio.
Il delizioso libro di Van der Jagt si chiamava Storia della mia calvizie. Il titolo era un gioco, poiché della calvizie il romanzo si occupava marginalmente. Nell’ultimo libro, a firma Grunberg, il gioco si ribalta: il titolo altisonante è Il Messia ebreo ma quello più realistico dovrebbe essere minimalista e suonare così: “Storia della mia circoncisione”.
La recisione del prepuzio, infatti, è alla base di buona parte dei discorsi e degli avvenimenti dell’opera, che si può dividere in due parti: la prima consiste nel tentativo del giovane Xavier di riconquistarsi un’identità ebraica e ritagliarsi un ruolo di rilievo (possibilmente come “consolatore”) all’interno del popolo eletto, in barba alla famiglia che quell’identità ha negato, e anzi vanta nella genealogia un avo fiero militante nel Reich. Il vero evento è la circoncisione, che assurge a emblema comico dell’appropriazione identitaria. Nella seconda parte, molto più breve, i fatti si proiettano nella Storia, ma un testicolo asportato a Xavier per complicazione post-operatoria, conservato in una teca e considerato una reincarnazione di Cristo, rimane in definitiva l’asse portante. In questo finale, francamente un tantino delirante, il timido giovanotto è diventato, in nome di un carisma di cui non v’era traccia nell’adolescenza, il capo d’Israele e tratta spregiudicatamente col nemico palestinese. Nella prima parte, invece, ad onta di una certa ridondanza che rende abbastanza palese la mancanza di un editing decente, il giovane Grunberg tira fuori sprazzi di grande genialità e splendida scioltezza stilistica che tengono incollati alla pagina. La sua forza è in certi dialoghi strananti, quasi imparentati col teatro d’avanguardia. Non solo Xavier ma tutti coloro ch appaiono dicono con esilerante naturalezza cose assurde. L’effetto viene amplificato dall’uso della narrazione impersonale che descrive l’illogico filo di pensiero dei protagonisti, una tecnica spesso felicemente usata da grandi narratori in lingua tedesca, come Broch nei Sonnambulio Canetti in Auto da Fè.
La pura, divertita e divertente visionarietà sembra sopraffare un chiaro progetto finalistico. Possiamo comunque dire che temi del libro sono la sofferenza, con la quale il protagonista, al pari di tutta l’umanità che lo circonda, utilizza un approccio epistemologico piuttosto che emotivo, e soprattutto la mobilità e la convenzionalità dell’identità, argomento che all’autore è caro anche in termini biografici, dato che egli rifiuta qualsiasi etichetta nazionale o etnica. D’altronde il cosmopolitismo è insito negli olandesi. Non è un caso se l’unica impronta collettiva che quel paese ha lasciato al mondo negli ultimi cinquant’anni è il calcio totale, fondato sulla convinzione che tutti debbano correre per ogni parte del campo, senza alcuna ingessatura in un ruolo e, dunque, privi di una prefissata identità.