Arnon Grunberg
Prom,
2004-09-27
2004-09-27, Prom

Gstaad 95-98


Cristina Bolzani

E' raro che un romanzo riesca a essere tanto spiazzante, sgradevole, (a tratti disgustoso), forgiatore di un'aberrante filosofia etica all'incontrario; e comunque divertire. A tanto arrivano le avventure di Francois Lepeltier che comincia la sua storia così: «Ci sono peccati necessari e peccati non necessari. La mia vita era fatta soprattutto dei primi, ma in questo catalogo li metterò tutti. Anche i peccati commessi per decoro o attaccamento alla tradizione devono essere corretti».

Fin da bambino Francois è introdotto nel mondo delle 'persone sgradevoli': poveri che come lui e la madre 'non sono nell'elenco del telefono', o privilegiati infelici, ossia 'superflui'. Nella morale capovolta da lui teorizzata, dopo esserne stato vittima, il suo obiettivo sarà quello di alleviare la loro sofferenza, 'sorvegliarli', affinchè non se ne vadano, (cioè non si diano la morte); infliggendo loro angherie o illusorie prestazioni professionali di se stesso. Anche il linguaggio è capovolto in modo grottesco; per cui, per esempio, 'avere pietà di qualcuno' nella logica stralunata del protagonista significa 'abusare (sessualmente) di qualcuno'.

Francois è segnato da un'aura di sgradevolezza fin dalla nascita. Figlio di un'attrazione occasionale, riesce a sopravvivere solo perché la madre - cameriera d'albergo e ladra - fallisce sia nel tentativo di aborto che in quello successivo di darlo in adozione.

L'infanzia lo vede prima complice dei furti della madre, poi comprimario di un menage a quattro dalla inquietante depravazione, poi dentista per caso, poi maestro di sci che esercita il 'peccato necessario' di iniziare fanciulle al sesso.

Ogni tanto frasi fulminanti tratteggiano le cose. Ogni avventura un nome diverso, come uno Zelig entra nel quadro assumendo la credibilità del caso. A cominciare dal suo morboso rapporto con la madre: «La mia Mathilde. Lei era autentica, io ero un falso. Se fosse morta lei sarebbe cessata una vita, se fossi morto io sarebbe cessato un gioco. Per questo dovevo sorvegliare Mathilde, senza di lei ero inconsistente, inutile».

L'ultima atto, al Palace Hotel di Gstaad, un albergo per persone «che contano, che pensano di contare o che vogliono spendere un po' per fingere di contare». Lui è un distinto sommelier e consolatore di donne vedove e infelici in genere; sono molte, dato che «più il mondo era superfluo, maggiore era l'esigenza di sorveglianza». Le avventure del protagonista, per il quale la cattiva strada è l'unica strada, finiscono qui, con un crescendo drammatico che è la chiusura simmetrica dell'inizio.

«Gli esperti vogliono sapere se il mostro si sente colpevole. I giudici vogliono sapere se il mostro è colpevole. Di quest'ultima cosa non dubita nessuno, della prima tutti. Ma il mostro era colpevole già molto prima di diventare mostro. Non sono mai stato altro. E qualsiasi cosa sentissi doveva soccombere davanti a quell'unico sentimento: la colpa».

E nonostante l'indubbio talento di Arnon Grunberg alias Marek van der Jakt, e anche se Francois alias Bruno alias Rodolpho alias Richard ci ha divertito al punto da diventarci quasi simpatico, con un certo sollievo ci accomiatiamo dal Mostro di Gstaad.