Arnon Grunberg
La Gazetta di Parma,
2004-09-23
2004-09-23, La Gazetta di Parma

L’altra faccia della vita


Francesca Avanzini

Decostruire, demolire falsi miti sembra essere la parola chiave per Arnon Grunberg, poco più che trentenne ma già affermatissimo enfant prodige della letteratura olandese che, forse per gioco, forse per provare che la realtà è meno compatta di quanto sembra, si è inventato l’alter ego di Marek van der Jagt. Con questo ha tenuto in scacco la critica e, grazie al romanzo Storia della mia calvizie, ha vinto nel sua paese il premio quale miglior esordiente del 2003.
Con lo stesso pseudonimo firma ora Gstaad 95/98 appena uscito in Italia per i tipi della Instar Libri. È la storia di un bambino forse ritardato, forse troppo intelligente, che si trova spettatore fin dai primi anni delle più crude realtà e perversioni, che passa attraverso la vita cambiando luoghi, genitori e identità, recitando i ruoli che le circostanze man mano gli richiedono o gli presentano, fino allo scioglimento preparato dalla progressiva suspense del libro. Sempre e comuque con una sua paradossale innocenza, una visione capovolta del mondo che lo porta ad affermare, anche nelle circostanze più truculente, “di stare scuotendo l’albero del bene”. Difficile catalogare Grunberg e il suo stile, dire se sia realistico, tragicomico, dissacratorio o altro, perché, come egli stesso dichiara, “le etichette ti collocano in un canto, e questo ti rende meno pericoloso”. È dunque lo scopo di uno scrittore, essere pericoloso? “In un certo senso sì, come lo è ogni buon romanzo. Il mio scopo non è di shoccare o disgustare, anche se alcuni possono rimanere shoccati o disgustati, ma di essere onesto. Lo scopo del romanzo è il romanzo stesso, non insegnare o stupire, e il romanzo offre il modo più chiaro di vedere la realtà. Non i giornali, la televisione o internet…” Si è tentati di dargli ragione. Il “mondo dell’ano” così spesso evocato in Gstaad 95/98, così vicino a quel magma di pulsioni erotiche e distruttive, a quegli istinti brutali e scatenati che ma cronaca ci porta quotidianamente nelle case, sembra più che mai qui adesso: la visione di Grunberg non può più dirsi distorta o grottesca, semplicemente lungimirante.
“È certo che la nostra tradizione giudaico-cattolico-cristiana ha ritenuto l’uomo moramente più capace di quanto non sia, ha collocato l’obiettivo troppo in alto. Tenendo conto che l’uomo è ciò che è, nessuno chiamerebbe più la mia visione tetra o squallida”. Tetraggine del resto ampiamente smentita dall’aspetto fisico di Grunberg: esile, testa riccia e bionda, ha quell’aria da elfo divertito, da jongleur dal tocco lieve che le mille trasformazioni dei suoi personaggi già lasciavano presagire: “Le tecniche di sopravvivenza dei miei personaggi, che entrano ed escono dlle situazioni, il loro istinto di sopravvivenza sono simili ai mici, e qui finiscono le similitudini, perché poi i miei personaggi si comportano in modo ben diverso da me. Ma anche l’identità è un mito che ci creiamo e al quale poi crediamo, mentre è pericoloso credere troppo a un’identità reata da noi stessi. Cambiamo a seconda delle circostanze, nessuno può dire, “io non farei mai questo, non farei mai quello”. Nessuno può mai essere troppo sicuro di sé. Ci sono tante cose in noi e a volte le circostanze lo portano a galla. A volte le circostanze si ergono contro di noi e i fanno fare cose che non avremmo mai voluto”.
È la vecchia regola dei “comportati come se”, e la gente, non tutta, forse, ma molta, ci crederà. “L’idea stessa di felicità o di dolore sono apprese, e se non avessimo queste idee preconcette potremmo trovare la felicità anche là dove non ci aspettiamo che sia. Certo è che per me dolore e felicità hanno radici comuni e sono molto vicini a “quell’attrazione animalesca” di cui si parla nel libro”. Un autore che la critca ha paragonato a Roth e a Houellebecq, per cui vengono in mente Nabokov e forse (forse) un Pasolini con più senso dell’umorismo, a chi si sente vicino? “ Di Houellebecq ho apprezzato il primo libro, quanto al Nabokov dei racconti, è inimitabile peché è inclassificabile, come la vita non sai se si tratti di commedia, di tragedia o che altro”